Christmas’s Ávido – Capitolo I: Esteban Ávido non festeggia il Natale

Era la vigilia di Natale e Milano era coperta da un candido manto di neve grigia… Sì, grigia, caro lettore, che c’è di strano? Perché, con tutto quello smog, ti aspettavi neve bianca a Milano?

Ok, ma quella è un altro tipo di neve, noi parlavamo della neve neve, quella che lieve viene giù dal cielo, come la nenia natalizia, non quella che si dispone tipo strisce pedonali nei cessi delle discoteche. Comunque, le strade risuonavano… di auguri di circostanza e di allegre risate, dirai tu, caro lettore… eh no, lo vedi che ti sbagli ancora! Clascon e bestemmie. È Milano, la gente ha fretta, mica siamo a Chivasso, dove non succede mai nulla e la vita va avanti tranquilla. Quindi, clacson e bestemmie nelle strade… e nelle piazze principali erano radunate folle di… bambini attorno ad alberi di Natale?!? Ma lettore, ma che dici!? Guarda che è Milano, non è mica la pubblicità del Bauli, dove i bambini cominciano a intonare jingle seduti sulle gambe osteopatiche di Babbo Natale. No, dunque, le piazze principali erano radunate, in realtà, da piccoli gruppi di punkabbestia che si stringevano attorno all’ultima bottiglia di San Colombiano, che la più giovane di loro era riuscita a fregare dal vecchio mobile bar della nonna, una sciura con una pensione minima pronta a vendere la dentiera per arrotondare. Le lancette del Rolex di un broker finanziario vestito alla Ricucci, che passava in mezzo a loro per arrivare a Piazza Affari dopo la modesta pausa pranzo in un McDonald’s, si erano appena posizionate sulle tre del pomeriggio, ma già faceva buio. E non perché stesse scendendo già la notte, era sempre l’enorme cappa di smog che custodiva la città come un sapiente scrigno fumogeno e maleodorante ad avere assunto una strana colorazione nero-bluastra che non prometteva climaticamente nulla di buono. Eh sì, c’era proprio aria di Natale!

Un’aria che il giovane e rampante Esteban Ávido, lo stilista di origini portoghesi della nota maison Ávido Se Siente, non avvertiva minimamente sul sedile posteriore della sua nuova Lancia Delta dai vetri oscurati, all’interno della quale raggiungeva i suoi uffici, per riprendere il lavoro sulla sfilata autunno-inverno 2014, tanto per portarsi avanti con tendenze e quanto altro. Sì, lo sappiamo che era la notte di Natale del 2009, ma noi che possiamo mai farci se lui lavora già per il 2014. Sì, si vede che è un tipo che gioca d’anticipo… Comunque, il suo autista aveva l’obbligo di non fermarsi mai lungo il percorso che andava dal ristorante dove era solito mangiare, lo Chez Martine, all’edificio dove lavorava. Nemmeno se avesse visto un bambino in procinto di attraversare la strada. Nemmeno se avesse notato un’anziana sciura che spingeva il naso fuori dal marciapiede alla ricerca della nipote punkabbestia che le aveva fottuto l’ultima bottiglia di San Colombiano dal mobile bar. E figuratevi se avesse incrociato un extracomunitario passare la strada… Wronggggg, sempre dritto per la via e chi si è visto si è visto. Lo sguardo annoiato e la mancanza di conversazione di Esteban Ávido con l’autista sottolineavano a chiare lettere che voleva essere lasciato in pace e che detestava ogni forma di cordialità o di contatto antropologico. Tenere il prossimo alla larga, facendolo sentire inferiore per classe, colore di pelle, gusti sessuali e quant’ altro, era la maggior soddisfazione di Ávido… e anche di Umberto Bossi, ma Bossi in questa storia non c’entra. Stiamo parlando di Ávido, noto per l’indole per trovare ristoro emotivo nell’andare a letto con fotomodelli diciottenni in cerca di fama e trentaseienni disperatamente interessati ad un riscatto sociale o un avanzamento di carriera in quella fabbrica di Barbie che è la factory “moda”. Non serve spiegare che lui prendesse in egual misura ma sempre in gran quantità sia dagli uni che dagli altri, senza dare mai niente in cambio… eccetto una cosa che non stiamo a dirvi cosa è, perché è Natale e questo è un racconto natalizio e ci teniamo a ricevere regali almeno dall’Artico (dato che il nostro Master non regala mai nulla ai suoi Slave). Tornando ad Ávido, l’avidità raccattatrice e accumulatrice era parte di lui; denaro e ricchezze che gli permettevano di continuare quella vita agiata, seppur vuota che conduceva per inerzia.

Il freddo che aveva nel cuore, ovunque quel cuore fosse e ammesso che lo avesse, non si manifestava però nel suo aspetto: era bello come un cartonato vivente di uno a caso dei Dieux du Stade. Muscoloso e abbronzato come certi divi hollywoodiani o certi attori di film lascivo… sì, insomma, fate un po’ voi… coi i capelli di un biondo Ferrero Rocher e le labbra carnose e morbide. Solo gli occhi, di un azzurro con anomale pagliuzze bianche, rivelavano esteticamente quel gelo che si portava dentro…

Parcheggiata la Lancia Delta, aspettò che l’autista, del quale non ricordava e non voleva nemmeno saperne il nome, gli aprisse la portiere per scendere. Ma ancora prima che le suole delle sue scarpe Prada rosse… sì aveva voluto la stessa tonalità di carminio di Benedetto XVI… toccassero il marciapiede, già sentiva, nel suo orecchio destro, il vociare sommesso e supino del suo assistente che dal parcheggio fino alla sua scrivania, gli forniva il dolce sottofondo di una comune giornata di lavoro.

Il suo ufficio era quanto di più minimalista ci potesse essere al mondo. Pareti bianche, una scrivania nera, una sedia dello stesso colore e dal design geometrico, poche luci al neon posizionate però nei punti giusti. Sopra la scrivania una sola cartella in pelle, ovviamente nera, con un mucchio di fogli immacolati dentro e una stilografica Dupont al suo fianco, poi un notebook con tappetino e mouse, ancora neri. L’uscio del suo ufficio rimaneva sempre chiuso, così da evitargli di entrare anche solo in contatto visivo con il suo assistente che, a proposito, aveva il comune nome di Roberto, il quale passava la giornata a semplificare gli obblighi del suo datore di lavoro e a intuire i suoi desideri… qualunque essi fossero. Un enorme pompa di calore scaldava l’ufficio di Ávido. Anche tutte le altre stanza, qualunque esse fossero, ne avevano una, ma per ordine suo, rimanevano spente 24 su 24. E guai a provare ad accenderle, perché si pensa meglio a mente e corpo freddi. Così, gli impiegati di Ávido battevano i denti, mentre lui se ne stava in t-shirt aderente al calduccio tropicale. Quel giorno però, faceva così freddo che Roberto era costretto a lavorare con una sciarpa Versace stretta attorno al collo e, quando era talmente intirizzito da credere che le dita gli stessero andando in cancrena, provava a scaldarle battendo più velocemente sui tasti della tastiera del suo computer.

Ávido si era appena seduto alla scrivania quando avvertì l’aria gelida delle altre stanze entrare nel suo ufficio. Qualcuno aveva aperto la porta.
«Buon Natale, Esty! Che Armani ti benedica!», esclamò una voce allegra.
Era Andrea, il cugino italiano del giovane stilista, che passava a fargli gli auguri, pur non avendo dubbi sull’accoglienza che gli sarebbe stata riservata.
«Com’è che si dice in quel racconto orribile di Dickens? Ah! Bubbole!», borbottò infatti Ávido «Chiudi la porta, piuttosto… E poi, parlo con te di Dickens, quando l’unica cosa che capisci di quel cognome è il dick dell’inizio?»
Il giovanotto aveva il volto acceso dalla camminata nello smog e il suo sguardo brillava comunque di entusiasmo nel vedere il cugino.
«Il Natale sarebbe una sciocchezza, Esty?», sorrise sedendosi sulla scrivania del cugino, fra l’altro proprio dove c’era il mouse del suo computer «Come puoi dire una cosa del genere?»
«Posso, eccome! E poi ti sei seduto sul mio mouse!»
«Non sembra lamentarsi il tuo mouse… E neanche io mi lamento…»
«Sei repellente. E comunque il Natale è un giorno come un altro. Tu che motivo hai di essere tanto allegro? Sei sempre la solita povera scema, oggi come ieri».
«Non si dovrebbe avere un bastone in culo anche a Natale… A meno che quel bastone non sia proprio l’albero di Natale», replicò Andrea.
«Non c’è giorno più indicato, invece. Tu e le tue sciocche amiche lo passate a scambiarvi gli auguri, mentre siete un anno più vecchi, più rugosi e più flaccidi… E Dio solo sa quanto si vede… E le vostre tasche sono sempre più vuote fra discoteche e drink».
«Ma Estynuccio, ascolta…»
«Ascolta tu, invece», lo interruppe seccamente Ávido alzandosi in piedi e piantando le mani sulla scrivania. «Festeggia pure il Natale a modo tuo e lascia che io lo festeggi a modo mio».
«Ma tu non lo festeggi affatto, cara amica», insisté Andrea, rattristato e scendendo dal tavolo. «Mi dispiace sentirti parlare così. Natale è un gran giorno in cui regnano la pace, la comprensione e l’amore… anche quello di gruppo!»

Oltre la porta, dove era chino a lavoro, l’assistente si lasciò sfuggire una risata, ma subito raggelato da un’occhiata di Ávido, si allontanò dalla sua visuale per fare pratiche inesistenti.
«Fallo una seconda volta», digrignò i denti bianchissimi Ávido «e festeggerai il Natale perdendo il posto di lavoro».
L’assistente si affretta a tornare alla sua scrivania, mentre Andrea si avvicinò alla porta dicendo:
«Non essere il solito stronzo, Esty… Domani vieni a pranzo da me?»
Spingendo fuori dall’ufficio il cugino, Ávido vide che qualcuno aveva lasciato sulla scrivania di Roberto una cartolina di Buon Natale con una renna che copriva a malapena un Babbo Natale decisamente forte e molto più giovane di quello tradizionale. «Che cos’è questa roba?», sbottò indicandola. «È così kitsch!»
«È un biglietto di auguri di buon Natale, Esty», disse Andrea «Se non fossi così frozen come canta l’immacolata Madonna, sapresti che significa… Quando verrai a pranzo ne troverai altre a casa mia».
Ávido lo fissò aggrottando le sopracciglia accuratamente sfoltite.
«Sono mai venuto a pranzo da te?»
«No, Estynuccio caro»
«E perché dovrei venire domani allora?», sibilò lo stilista sbattendogli la porta in faccia.

Lo zio Nico
Antonio P.

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