Christmas’s Ávido – Capitolo III: Esteban Ávido incontra il fantasma di Luciano Ferrigno

Il glaciale Ávido si diresse verso il Chez Martine dove consumava solitamente i suoi pasti frugali. Mangiò un piatto di bourride provenzale e pure con poco appetito perché non amava molto la cucina francese, poi repentinamente, risalì sulla sua auto in direzione del suo attico extralusso.

Le strade erano deserte in quella notte innevata, ma da tutte le finestre veniva un chiarore di mille lampadari, televisori e alberi di Natale accesi. Fortunatamente, non poteva sentire la voce di Carlo Conti che presentava il coro dei bambini dell’Antoniano pronti a friggere gli zebedei agli italiani con gli inni natalizi. Quando finalmente aprì la porta della sua casa, minimalista e in bianco e nero come il suo studio, si lasciò travolgere dalle luci dei lampadari liberty appesi all’alto soffitto. C’era così tanta luce che, per attraversare – con il passo da Naomi Campbell – il lungo corridoio vuoto che lo avrebbe portato in camera da letto, doveva tenersi sul naso gli occhiali da sole Yves Saint Laurent. Mentre l’eco delle sue Prada sul parquet risuonava nell’aria dell’appartamento, borbottò fra sé: «Il Natale, che stronzata!».

Virò come il Lindsay Lohan di fronte ai paparazzi verso il soggiorno, dove accese la pompa di calore e cominciò a scaldarsi le mani. Temperatura: inferno. Andò poi in camera da letto, mise il suo boxer firmato D&G, si cosparse di creme e cremine de L’Oreal su tutto il corpo e in qualsiasi altra cavità già esplorata dall’uomo e poi, infilandosi pantofole zebrate e vestaglia orientale simil kimono in seta, andò finalmente a sedersi nella sua comoda poltrona in pelle di delfino… esiste, esiste… davanti a un muro a strisce bianche e nere, come era solito fare prima di andare a dormire. Che cosa ci trovasse in quel muro, nessuno lo sapeva, anche perché nessuno era mai entrato in quel suo bunker dell’amore mordi e fuggi.

Lo spiacevole incontro con le due volontarie di quell’associazione dimenticata da Dio, gli aveva fatto venire in mente che il suo socio Ferrigno era morto proprio quella sera di sette anni prima, lasciandolo titolare della maison. Ávido era stato il suo migliore amico, il suo unico erede e, di tanto in tanto, anche il suo amante. Era l’unico a cui vennero porte le condoglianze alla sua morte, ma solo perché i media erano concentrati su di lui. Ma Ávido non fu realmente turbato da quell’evento. Il giorno dei funerali invece di seguire il feretro al cimitero, andò a cambiare il nome della maison che ormai era sua e a ordinare il trasferimento immediato dei beni dell’amato socio nell’appartamento dei genitori. Però se l’era cavata egregiamente anche da solo, e questo pensiero gli contrasse le labbra carnose in una smorfia che nel suo caso poteva anche essere considerata come una strana forma di sorriso.
Poteva dirsi soddisfatto di sé, l’arrivista Ávido: in sette anni aveva quasi triplicato il suo patrimonio!

Mentre era assorto in tutti questi ragionamenti, lo stilista udì come un suono di campanelli. Un tintinnio continuo, incessante, fastidioso come la voce di Ghedini ad Annozero, che presto gli diede la sensazione che stesse per scoppiargli la testa.
Il rumore si faceva sempre più forte: ora sembrava quasi un clangore di catene gangsta trascinate sul parquet. D’improvviso, le luci del suo attico cominciarono a tentennare e a spegnersi una dopo l’altra, solo una nel fondo del corridoio era rimasta accesa, proiettando la sua luce su un chiarore che prese forme umane e cominciò ad avvicinarsi con l’andamento da red carpet. I lampadari di casa sua si accendevano e spegnevano, alternandosi come flash fotografici e, quando Ávido sgranò gli occhi, si trovò di fronte a quello che era una figura umana estremamente curata nel look e nel fisico, ma stanca e con il corpo stretto da una lunga catena che trascinava, alle sue molte estremità, armadi glitterati, sarte luride e vecchi, fotomodelle anoressiche che a stento riuscivano a fare qualche passo, una cassaforte, relle colme di abiti e riviste di VOGUE per almeno sette anni di abbonamento! E intorno a loro, si diffondeva I love you baby di Gloria Gaynor.

«Come sei entrato? Come ti permetti di entrare in casa mia!», strillò con una scheccata Ávido, alzandosi in piedi in un moto di coraggio e acidità.
«Presto, lo saprai», rispose una voce effeminata, ma cavernosa.
«Chi sei?»
«Sarebbe più esatto chiedere chi ero», disse la figura.
Ávido cadde all’indietro sulla poltrona, facendosi ancora più pallido: «Chi… chi eri?»
«Non mi riconosci? Ero il suo socio d’affari, Luciano Ferrigno».
«Luciano!?!», esclamò Ávido impietrito. «E che cavolo vuoi da me? E da quando ti sei dato al sadomaso?»
«Non credi nella mia esistenza, vero?», disse la figura.
«Bravo, hai indovinato, tesoro…» rispose arcigno Ávido. «Io credo solo a due cose: nel seso e nel decesso. E tu rientri nella seconda categoria».
«Puoi vedermi, Esteban? Riesci a vedere la mia camicia Roberto Cavalli, i mocassini Ferragamo e questo splendido pantalone Versace?»
«Certo».
«Puoi sentire la mia voce?»
«Sicuro».
«Allora, perché dubiti dei suoi stessi sensi, sciocchina… Troppa coca?»
Ávido fece una smorfia di fastidio: «Questa sera, potrei avere fatto indigestione» disse «Forse sei solo un’allucinazione da cibo… Una visione che proviene più dal mio stomaco che dai sepolcrali abissi della tomba parigina dove ti ho ficcato… Ricordi, sei seppellito al cimitero di Père Lachaise, accanto alla tomba di Maria Callas».

Tale congettura lo rassicurò al punto tale che proruppe in una risata cristallina e divertita. Non c’era più paura nel suo cuore, anche perché non c’era cuore lì dove il cuore anatomicamente doveva stare, così facendo però scatenò l’ira funesta della figura, che con un gesto rapido delle mani e alzandosi da terra, proruppe in un acuto con l’estensione vocale di cinque ottave. Era la Mariah Carey dei fantasmi! D’improvviso, le vesti di Ávido scomparvero e ne riapparvero altre: un pantalone in leopardato stile puttanone di Trastevere, una t-shirt fasciatissima e dai colori catarifrangenti rubata a qualche cubista di una discoteca Anni Novanta, accessori raccattati dagli ultimi dieci numeri di CIOE’, zeppe arancioni che gli pareva di aver visto in qualche video delle Spice Girls e un tatuaggio tribale che gli arrivava fino a sotto il mento.

A quella vista, Ávido cadde in ginocchio, implorando: «Pietà, pietà per me! Non fare mai più una cosa del genere! Cambiami!».
«Come sta adesso il tuo stomaco, Esteban Ávido… o dovrei dire…»
«Non pronunciare quel nome! Non andare oltre! Ti credo! Oh, Luciano, ti prego, perché ce l’hai con me? Che cosa ti ho fatto?»
«Dunque, sciocchina, adesso tu credi nella mia esistenza?» si placò il fantasma.
«Sì, sì! Ci credo» balbettò Ávido «Ma, dimmi… perché hai quelle catene?»

«Le catene?» sogghignò lo spettro. «Le porto perché in vita le ho forgiate con le mie voglie sfrenate, con la brama di lusso e con l’avidità. La mia anima, da vivo, non è mai andata oltre le mura dei nostri uffici… mentre il corpo non usciva mai da camere da letto dove mi perdevo in orge multirazziali con ragazzi trovati un po’ ai Magazzini Generali ed al Plastic. Non ho mai avuto tempo per la compassione, per la carità o per le anime dei miei simili… Se non per certi aspetti legati a meri desideri suini… Non mi innamorai mai. Non ebbi nemmeno attenzione per la mia famiglia. Non facevo altro che accumulare denaro e uomini, sperimentando milkshake di alcol e droghe. Ho comprato così tanta cocaina che il mio spacciatore ha cominciato a mangiare sushi! E ora la mia anima è costretta a scontare i miei errori; per sette anni ho vagato su tutti i catwalk del mondo, persino dell’intimo di Valeria Marini… senza un solo attimo di sosta, senza avere mai pace. Il mio unico compagno di viaggio è stato il rimorso: il rimorso e il rimpianto per le opportunità perse per sempre. Non ti è familiare tutto ciò? Non ti riconosci nel mio racconto, sciocchina? Anche tu, ti sei forgiato una catena come la mia. Non rispondi? Osserva questo numero di VOGUE, Esteban!»
Così dicendo, tra le mani dello spettro apparve la rivista dalle pagine ingiallite con un servizio fotografico improntato sulla sua collezione. Ávido era terreo in viso, le mani giunte in un gesto di supplica, sempre inginocchiato sul parquet gelido.
«Sei… sei sempre stato un bravo uomo d’affari, Luciano. Guarda che stile… E guarda che maschioni… Questo ragazzone biondo me lo sono portato a letto, sai? Gran belle dimensioni…» balbettò.
«Non hai imparato niente, allora?» tuonò interrompendolo allora il fantasma. «Questa mia apparizione è per te un dono del cielo. Hai una possibilità di sfuggire al mio stesso destino; per questo ti sono apparso! E comunque, sì, me lo sono fatto anche io… Oh… Uno dei momenti più belli della mia vita… Certe cose… ti inondano di calda gioia…»
«Lo so» mormorò Ávido «hai sempre avuto un palato sopraffino…»
«Tre spiriti del cielo verranno a farti visita» annunciò lo spetto. «Il primo di loro apparirà questa notte stessa, quando il Rolex batterà l’una. E adesso addio. Non mi vedrai più, Esteban, mai più… Ricordati che la tua salvezza dipende da te… E smettila di usare creme l’Oreal da discount!»
Così dicendo il fantasma scomparve improvvisamente e in silenzio.

Lo zio Nico
Antonio P.

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